Ma secondo voi Abbiamo l'Esclusiva?
Anche gli animali hanno i colpi di genio?
INTERVISTA L'intuizione che ci fa
trovare la soluzione di getto è come una lampadina che si accende. E
negli animali? Ne abbiamo parlato con Richard Byrne, studioso
dell’evoluzione del comportamento sociale e cognitivo
In psicologia e neuroscienze il termine inglese insight,
intuizione, equivale all’Eureka, il colpo di genio, quello che -si
dice- colpì il matematico Archimede mentre faceva il bagno. Un momento
non sappiamo la risposta ma un attimo dopo "aha!", arriva
all’improvviso, come se il cervello ci avesse ragionato per conto suo.
Trovare la soluzione per insight, in pratica, significa vedere il problema da un altro punto di vista, quello che in inglese si chiama "think outside the box” e che nel corso degli anni è stato studiato anche negli animali.
Di apprendimento per insight si iniziò a parlare con il
movimento della Gestalt. Era il 1913 e lo psicologo Wolfgang Köhler si
trovava a Tenerife, nelle soleggiate isole Canarie, a dirigere la
Stazione per la ricerca sugli antropoidi. Il suo approccio era
innovativo per il tempo: non studiava gli scimpanzé mentre risolvevano
test specifici, ma presentava loro dei compiti più semplici per
osservare, da spettatore, come li avrebbero affrontati. Quando lavorava
con lo scimpanzé Sultan, poi diventato famosissimo, Köhler metteva una
banana fuori dalla sua portata, ad esempio appesa molto in alto,
lasciando
però a sua disposizione una serie di cassette di legno e bastoni di varia lunghezza.
Sultan iniziava lanciando oggetti contro la banana, poi prendeva per
mano i ricercatori e li portava sotto al frutto nella speranza che lo
cogliessero per lui (o lo sollevassero). Falliti tutti questi tentativi
si sedeva, apparentemente ponderando, fino a quando “Aha!”: iniziava a
impilare le cassette o a unire vari bastoni per farne uno più lungo,
raggiungendo la banana. Non era stato addestrato né aveva ricevuto dei
premi per questo comportamento, che Köhler descrisse come un’intuizione
improvvisa. Sultan non era arrivato alla soluzione per prove ed errori
(o perlomeno non al di fuori della sua mente): era come se avesse
riconfigurato gli elementi a disposizione, la banana, il bastone e le
cassette, per poi arrivare alla risposta.
È ancora questo che intendiamo quando parliamo di insight negli animali o il concetto di è espanso nel tempo, diventando qualcosa di diverso? Lo abbiamo chiesto a Richard W. Byrne,
noto studioso dell’evoluzione del comportamento sociale e cognitivo e
autore del libro “Evolving Insight” (Oxford University Press, 2016).
Professor Byrne, prima di tutto: quando parliamo di insight
in animali e umani parliamo della stessa cosa, ovvero risolvere un
problema ri-configurando i suoi elementi e non attraverso un processo
analitico?
Non sono molto d’accordo con la definizione del “non attraverso un processo analitico”. È questo il problema con il termine insight,
si tende a comprendere cose diverse: l’interpretazione di un unico
esperimento controllato, quello di Sultan, ha avuto un’influenza
eccessiva e ha reso facile affrettare le conclusioni sull’intera idea di
insight negli animali. La definizione che do all’inizio del
mio libro è essere in grado di rappresentarsi mentalmente gli elementi
fondamentali di una situazione, anche se non li si percepisce
direttamente, dipendono da correlazioni oppure sono variabili nascoste,
delle entità che in quel momento non si possono vedere. Il che comprende
molte più cose rispetto a “risolvere i problemi ri-configurandoli”,
anche se ovviamente lo include.

Uscire dalla semplificazione dell’Eureka rende di certo le cose
più complicate. Nel suo libro dice anche che ci sono due tipi di insight,
perché “è evidente che gli esseri umani hanno una comprensione maggiore
basata sul potere rappresentativo del linguaggio”. Si intende la nostra
capacità di rappresentarci scenari astratti senza averli mai visti, o
magari parlare delle nostre intenzioni? Ci spieghi meglio.
Se gli animali prendono decisioni in base alla pianificazione, riguardo a
cose che non possono percepire in quel momento, significa che se le
rappresentano mentalmente. Dunque hanno un insight in merito. [Con il linguaggio, ndr] c’è lo stesso fraintendimento dell’Eureka: l’insight
di cui parlo si basa sul rappresentarsi il mondo nella mente, il che
significa che più è potente il codice che abbiamo per rappresentarcelo
più sarà elaborato e complesso il nostro insight. Il linguaggio, lo
sappiamo dagli studi sugli umani, permette di ricordare informazioni più
stabili ed elaborate per lunghi periodi. Quando assistiamo a un evento
drammatico, ad esempio, non conserviamo a lungo il ricordo percettivo
dell’evento, ma la conoscenza proposizionale, descrizioni verbali
incluse, di quello che è successo. È pericoloso nel caso dei testimoni
oculari: ricordano soprattutto quello che hanno detto ad altre persone
dopo l’evento, non quello che hanno visto davvero!
Quindi possiamo annoverare tra le specie capaci di insight gli scimpanzé, che pianificano il ritorno
agli alberi da frutto considerando la distanza, il grado di maturazione
e molti altri elementi senza poterli effettivamente vedere. Per quanto
ne sappiamo, quali altre specie hanno insight? Quali parti del loro
cervello sono coinvolte?
Questo, come può immaginare, dipende dalla definizione che si adotta!
Gran parte del mio libro è dedicata proprio a rispondere a questa prima
domanda e sono un po’ riluttante a riassumerla in una sorta di lista. Ma
può essere d’aiuto pensare a questa “lista” come composta da due tipi
di specie: un gruppo di specie strettamente imparentate con noi, che ci
mostrerebbe quanto tempo fa abbia avuto origine quest’abilità, e un
altro formato da specie con le quali non siamo imparentati, ma che lo
stile di vita ha comunque portato a evolversi in direzioni simili alla
nostra e a quella dei nostri parenti più stretti. Questo secondo gruppo
include, probabilmente, gli odontoceti, gli elefanti e i corvidi.
Per quanto ne so non conosciamo quali regioni del cervello sono
coinvolte, il che probabilmente significa che si tratta di aree molto
grandi. In particolare, l’associazione tra le dimensioni del cervelletto
e le specie che hanno mostrato vari tipi di insight ci suggerisce che
non è affatto limitato alla corteccia cerebrale.
Quali sono oggi le lacune nella nostra comprensione dell’evoluzione dell’insight?
Sono molte e davvero vaste. Ma per quanto mi riguarda, il problema
peggiore è che l’attenzione è sempre stata rivolta alle specie che
informalmente consideriamo “intelligenti” e dotate di cervelli piuttosto
grandi, implicando -senza averlo testato- che tutte le altre mancano di
insight. Nel ricostruire l’evoluzione abbiamo bisogno di basi
solide per poter dire che questo o quel gruppo di specie non ha
un’abilità, non solo continuare a dimostrare che pochi gruppi speciali
invece la hanno.
Nel 2002 uno studio riportava la performance di Betty, un corvo
della Nuova Caledonia che per raggiungere il cibo aveva piegato un fil
di ferro a forma di amo. Di fronte a un problema nuovo aveva elaborato
una soluzione nuova per conto suo: anche se l'interpretazione
dell'esperimento è stata ridimensionata, fu considerato uno dei primi esempi di insight negli uccelli.
Non da me. Privilegiare un aneddoto osservato in cattività -per quanto
notevole- è una scelta infelice. Non ci fornisce informazioni sulla
possibilità che sia stata fortunata o aiutata dal caso, né su come ci
sia riuscita la prima volta. Possiamo imparare molto di più studiando
cosa fa la maggior parte dei corvi e in particolare cosa fa in natura.
Torniamo allora agli scimpanzé, che in natura modificano dei
bastoncini rendendo la punta simile a un pennello, in modo da catturare
le termiti più facilmente.
Se uno scimpanzé lo fa in modo appropriato prima di arrivare sul luogo
in cui ne avrà bisogno, significa che ha una rappresentazione mentale di
ciò che gli servirà come strumento. Io la considero una forma di
insight, a prescindere da come abbia acquisito quella conoscenza, perché
richiede di avere in mente una rappresentazione piuttosto astratta
dell’obiettivo. È quello che nella vita di tutti i giorni chiamiamo
“comprendere”: le prove ci mostrano che lo scimpanzé “comprende” che un
legnetto con la punta a pennello gli sarà utile. Ha un insight nella
funzione, perciò prepara lo strumento in anticipo.
Ma a questo punto come distinguiamo un utilizzo complesso degli strumenti dall’insight?
Se il problema porta l’animale fare una lunga serie di azioni, prima di
arrivare al risultato, possiamo definirlo complesso. Anche se in nessuna
fase sono serviti insight o comprensione. Allo stesso modo, se
il corredo genetico di una specie porta l’animale a fare molte
operazioni prima di arrivare al risultato, questo certamente è
complesso, ma non c’è traccia di insight: l’esempio più ovvio
sono gli uccelli che costruiscono nidi molto elaborati, come gli uccelli
tessitori, in cui gran parte del processo è determinato proprio
dall’appartenenza a una specie.
C’è consenso intorno all’idea che gli animali con cervelli più grandi siano i migliori candidati per l’insight,
perché nella vita di tutti i giorni devono risolvere problemi sociali e
muoversi in un ambiente sociale complesso? Qual è la sua opinione al
riguardo?
La mia opinione, un po’ cinica, è che le idee condivise dalla
maggioranza -come credo sia quella che mi ha appena sottoposto- sono
spesso sbagliate! Nel mio libro argomento diffusamente che le abilità di
tipo tecnico e ambientale siano legate da un nesso causale all’origine
dell’insight negli ominidi, le cui sfide sociali non sono più impegnative rispetto a quelle delle scimmie, che non sembrano avere insight
se non in alcuni ambiti limitati dei problemi di tipo spaziale. Il
fatto che il corvo, una specie solitaria che vive in coppie durature, se
la cavi così bene nel problem solving in laboratorio, anche
nei problemi sociali come quelli che richiedono una certa teoria della
mente [la capacità di comprendere gli stati mentali propri e altrui,
ndr], mi fa pensare che la mia congettura sia corretta!